Quando i piloti erano re, c’erano gli occhi cerchiati di rughe di Patrick Depailler e il fumo di una Gauloises che li portava via come titoli di coda. Era un tempo più semplice, felicemente analogico. Il cambio delle Formula 1 era ancora manuale, e se le macchine uscivano di pista e sbattevano si aprivano come modellini di cartapesta. Gli uomini avevano, a trent’anni, il volto da uomini. O da attori di film noir, come Patrick. Era il 1980, e oggi sono quarant’anni senza di lui.
L’1 agosto l’Alfa Romeo aveva affittato il circuito di Hockenheim per una sessione di prove private. Hockenheim era un circuito da guardare di sguincio, i piloti lo sapevano: una distrazione e non ti perdonava, come un jab di Sonny Liston. Ma era veloce, e potevi capire quando veloce fosse la tua macchina. In pista c’erano solo i due piloti ufficiali: Depailler e Bruno Giacomelli.
“Ricordo tutto di quel giorno. È stato un trauma notevole, per noi che eravamo là. Io sono stato uno degli ultimi a parlargli”, rievoca Giacomelli, che dopo avere dominato come nessuno mai, né prima né dopo, il campionato europeo di Formula 2 nel 1978, era alla sua prima stagione completa di Formula 1. Come l’Alfa Romeo, peraltro. “Quel mattino Patrick aveva avuto dei problemi con la sua macchina, io con la mia. Si era fatto tardi, circa mezzogiorno. Venne pronta la sua per prima. Mi chiese di provarla, gli sembrava di avere sentito qualcosa di strano nella trasmissione. Accettai. Feci solo due giri, non tirai al limite, e quando tornai ai box gli dissi che non avevo sentito niente di strano. Intanto era venuta pronta la mia macchina. Lui fumava le Gauloises senza filtro. Spense la sigaretta, salì in macchina e partì. Passò una volta davanti ai box e poi non più. Nessuno pensò a un incidente, ma a un guasto. L’ingegner Marelli andò con la macchina a vedere. Poi si mise in moto la camionetta dei vigili del fuoco. Allora presi la macchina a noleggio con cui ero venuto e andai anch’io. Con me salì un’amica della sua ragazza, Valérie, che era venuta in macchina da Parigi, era l’ex di Pironi, si chiamava Agnes. Quando arrivammo alla Ostkurve, la scena era apocalittica. La ragazza è impazzita, si mise a gridare, sembrava di essere in un film”.
Le parole di Giacomelli sono precise, come i ricordi incisi nella sua memoria. “Quel giorno stavano facendo dei lavori sul circuito. Su quella curva, che era dalla parte opposta dalla zona box, normalmente all’esterno c’erano cinque fili di reti, ma le avevano tolte, arrotolate e messe dietro il guardrail. Era un curvone che non si faceva in pieno ma era molto veloce, c’era un banking pronunciato che teneva dentro la macchina. Un curvone da 255-260 orari circa. Ci arrivavi in quinta ma non al massimo dei giri, e dovevi alleggerire il piede. Lui ha impostato il curvone, la macchina è partita dritta, è andato a urtare contro il guardrail con un angolo di quasi 90 gradi. Lui ha frenato disperatamente, si vedevano le strisce sull’asfalto e sull’erba. L’angolo di impatto è stato letale. La macchina si è ribaltata due volte sul guardrail, lui è rimasto a testa in giù. La macchina davanti era distrutta completamente, era aperta, però lui si era rotto solo una gamba e un braccio. Aveva picchiato con la testa quando si era rovesciata, ed è stato quel trauma che ha causato la sua morte, che è avvenuta in ospedale. Quando verso sera il medico ci ha comunicato che non ce l’aveva fatta, è stata una mazzata per tutti”.
Così se ne andava uno degli ultimi protagonisti della Formula 1 genio e sregolatezza, quella dei James Hunt, Clay Regazzoni, Mike Hailwood, Gilles Villeneuve. Proprio Hunt lo definiva “matto da legare”. E lui se ne intendeva. Depailler amava il rischio, garantito da quelli che chiamava gli sport “duri”: deltaplano, sci, vela, caccia subacquea, moto. Lui non era uno da circolo del tennis. Con il deltaplano, alla vigilia dell’estate 1979, aveva avuto un brutto incidente, ricavandone fratture ai piedi. Carriera finita, disse qualche collega pilota. E invece lui, reduce dalla seconda delle sue due vittorie, in Spagna con la Ligier (la prima, storica, l’aveva ottenuta a Monaco nel ’78 con la Tyrrell, scuderia per la quale disputò la maggioranza dei suoi 95 Gran Premi, tra il 1972 e l’80), lui tornò in pista, ingaggiato dall’Alfa di Carlo Chiti. Come pilota pare che gli piacesse Jean Behra, un’altra testa calda. Ma i suoi due eroi erano ciclisti: Jacques Anquetil ed Eddy Merckx, entrambi vincitori di cinque Tour de France. Nick Brittan, ex pilota nelle serie minori, per anni nel mondo del Circus, ricorda una sera a cena in cui parlavano delle finanze di Depailler e di come rimettere le cose a posto. “Patrick, dobbiamo pensare al tuo futuro, gli disse Brittan. “No, no”, rispose Depailler, “il futuro è per altre persone”.
“Patrick è morto di vita”, disse il regista Alain Boisnard, che lo conosceva. Invece, il suo incidente è facilmente legato a un problema meccanico. “Ne ho sentite tante sull’incidente”, spiega Giacomelli. “Io non ho mai avuto problemi in curva per le minigonne. Né ho mai visto ‘nero’ in curva, a causa dell’aderenza garantita dall’effetto suolo. All’epoca lessi che dei piloti lo sostenevano, ma io non l’ho mai riscontrato. Per la mia esperienza lo escluderei, ma potrebbe essere, non lo sapremo mai. Quello che posso dire è che io ero là e sono stato uno dei primi ad arrivare sul luogo dell’incidente. Da quello che abbiamo visto credo che la causa sia la rottura di una sospensione. Non ci può essere certezza, ma io penso proprio che sia quello. Quando la macchina parte per la tangente così repentinamente non può essere la minigonna. Invece anche dai segni sull’asfalto è molto probabile che sia avvenuto il cedimento di una sospensione, io penso anteriore. Quell’anno, di cedimenti del genere ne ho avuti più di una volta, ma anche se mi è capitato a velocità altissime, non ho urtato da nessuna parte, al contrario di Patrick”.
Guidare auto che si potevano rompere, non è un’esperienza condivisa dai piloti di oggi. Una fortuna, certamente, ma certo toglie fascino al gioco. “Non ci pensi che si possa rompere la sospensione. Sarà l’età, non lo so, ma un pilota non pensa mai di poter subire un incidente. Il pilota è un individuo particolare, ha una certa dose di incoscienza che non sa di avere. Ho sentito parlare di coraggio, ma per correre in macchina non ci vuole coraggio. Non sono mai entrato in una curva senza la certezza matematica di poterla fare. È vero che l’incidente meccanico è lo spauracchio di tutti i piloti, ma tu come piloti non ci pensi mai. Come non c’è la paura, non c’è coraggio. Per un pilota ci sono solo le corse”.
Andrea De Cesaris, però, confessò che quelle monoposto erano “la cosa più pericolosa su cui sia mai salito nella mia vita”. Per non parlare dei circuiti: Hockenheim aveva sulla “coscienza” già un altro campione, per alcuni il più grande di tutti: Jimi Clark, che il 7 aprile 1968 vi aveva perso la vita durante una corsa di Formula 2. La curva era quella precedente alla Ostkurve dove uscì Depailler: in così poco spazio, tanta tristezza. Ad Hockenheim, in un terribile incidente, si concluse anche la carriera di pilota di Didier Pironi, nel 1982. Sia dopo la morte di Clark che di Patrick, cambiarono il circuito, inserendo delle varianti in quelle curve velocissime. Poi, nel 2002, Hockenheim venne definitivamente addomesticato perdendo la qualifica di tempio della velocità, che condivideva con Silverstone e Monza.
“Io cercavo di battere lui e lui cercava di battere me, come capita tra tutti i compagni di squadra”, ricorda Giacomelli. “Io ero in ascesa, lui aveva già vinto dei Gran Premi. Ma eravamo molto in sintonia, c’era una bella intesa tra noi e una bella atmosfera in squadra. Era una persona con i piedi per terra, non se la tirava. Tra l’altro, stava recuperando le forze dopo l’incidente col deltaplano. All’inizio della stagione era claudicante. Patrick aveva un modo di guidare molto diverso dal mio. Io ero più pulito, mentre lui era più ‘sporco’, parlando di guida. Sulle opinioni che davamo sulla macchina erano abbastanza concordanti. È riconosciuto ancora oggi come un grande collaudatore, ma devo dire che all’epoca me ne occupavo io dello sviluppo. Come guida era accostato a Peterson: aveva una guida molto fisica, che lo conduceva anche a superare quella linea oltre la quale perdi tempo. La derapata, che è una cosa in più, spettacolare ma non porta beneficio al tempo. Aveva questo modo irruento di guidare ed era un pilota veloce, non c’è dubbio. Però la velocità è solo una delle componenti che contribuiscono al risultato. All’inizio della stagione la macchina aveva ancora un sacco di problemi, poi ha fatto un tremendo salto in avanti nelle prestazioni. Ha cominciato ad andare fortissimo già a Imola, poi a Montreal e negli Stati Uniti, dove ho fatto la pole. A Imola ho mancato la pole per mezzo bicchiere di benzina. A Montreal forse avrei potuto vincere, mi toccai con Pironi. Le prime gare prendevamo anche quattro secondi al giro. L’ultima gliene abbiamo dato uno al secondo”.
Dopo l’incidente, l’Alfa Romeo lasciò libero Giacomelli di scegliere se correre o no il Gran Premio di Germania, in calendario nove giorni dopo, il 10 agosto. “Scelsi di correre, anche in suo onore. Ogni volta che arrivavo in quel curvone pensavo a lui. Però feci anche un bella gara perché arrivai quinto. Patrick è stato l’unico compagno di squadra che ho perso. È stata una botta tremenda. La sera dell’incidente sono tornato a casa in aereo, da solo. È stata dura. Ti poni delle domande. Ero giovane, non avevo ancora 28 anni. Però l’ho superata, perché sei dentro un meccanismo e anche perché correre è il tuo mestiere e la tua passione. Non sono i soldi che ti fanno andare avanti, ma la passione”.
Il giorno prima del GP di Germania 1980, Depailler avrebbe compiuto 36 anni. “Son passati già quarant’anni… più anni di quelli che aveva lui quando è morto. Oggi Patrick avrebbe 75 anni. Pazzesco. Però se guardo indietro, è come se fosse ieri”.
Luca Delli Carri per Scuderia Club Italia