Con un inedito ritardo, oggi 5 luglio è cominciata la stagione di Formula 1 2020. E oggi, cinquant’anni fa, con la solita puntualità andava in scena il Gran Premio di Francia 1970. La distanza tra i due eventi è, purtroppo, come sempre siderale. E il tempo trascorso non c’entra. Anzi, è il dettaglio più trascurabile.
Si correva al Clermont-Ferrand, uno dei tanti piccoli Nürburgring: 51 curve per 8 chilometri e 55 metri, un tracciato disegnato da una mano tremolante sulle pendici di un vulcano. Il record sul giro in Formula 1 appartiene a Chris Amon: 2 minuti, 53 secondi e nove decimi. Era il 1972, anno dell’ultima edizione di una brevissima serie di cinque GP. Troppo pericolo, amore ciao. Nel 70 e proprio al Clermont-Ferrand, Amon festeggiò il suo 50esimo Gran Premio di Formula 1. Era ritenuto uno dei più veloci, eppure non aveva mai vinto un GP. Né l’avrebbe fatto nei successivi 58 GP. Quel giorno arrivò secondo, fedele a un ruolo che non gli si addiceva eppure fu il suo. I leader della corsa furono, nell’ordine: Jacky Ickx, Jean-Pierre Beltoise, Jochen Rindt. Un sogno. Non vide il traguardo un giovane fresco di debutto: era al suo quarto GP e in quell’occasione collezionò il suo primo ritiro (al 17esimo giro, per la rottura del differenziale), esperienza che purtroppo gli capitò molte volte di ripetere. Si chiamava Ronnie Peterson. Anche lui ce lo ricordiamo come uno dei più veloci piloti di sempre, e anche lui, come Amon, non ha assaporato il più dolce dei frutti per un corridore di Formula 1: il titolo di campione del mondo. Curioso, quel giorno guidavano entrambi una March, seppure di squadre differenti. La March era a sua volta all’esordio in Formula 1. Questo marca è stata un po’ come Amon e Peterson: geniale (tra i soci fondatori c’era Robin Herd) e veloce, ma perdente, almeno in Formula 1. Proprio nell’anno del debutto colse il suo miglior piazzamento nel Mondiale Costruttori: terza. Una carriera al contrario. Senza dubbio, per tutti loro mancò la fortuna, non il valore. Ma è davvero così?
Dieci anni fa, primavera 2010, incontrai Chris Amon a casa sua, in Nuova Zelanda. Era uno dei piloti che più amavo. Subito gli posi questa domanda, rompendo il ghiaccio con la dedica che gli aveva fatto Enzo Ferrari: “Al pilota più bravo e più sfortunato”. E lui, scoppiando a ridere: “Sfortunato io? Il contrario, semmai”. Poi mi spiegò: “Mario Andretti ha detto una cosa molto divertente sulla mia sfortuna: che se io fossi entrato nel ramo delle pompe funebri la gente avrebbe smesso di morire. Io invece ritengo di essere un uomo fortunato, e molto. Se penso a tutti i miei amici che sono morti in quegli anni, non posso che definire eccezionale il fatto di essere sopravvissuto”.
Mangiammo al ristorante del golf club locale. Il golf era un piacevole passatempo, per Chris. Mi era venuto a prendere all’aeroporto con una Lexus elettrica. Il tempo aveva divorato l’immagine del pilota selvaggio dai capelli lunghi, icona della F1 a cavallo tra i Sessanta e Settanta. Ma gli occhi, d’un azzurro immacolato, erano gli stessi delle fotografie di allora. È stato il pilota di F1 che ha percorso più chilometri in testa senza vincere un GP iridato. “Non ho alcun rimpianto”, mi disse, “perché non sono cresciuto con il sogno di diventare un pilota, volevo solo divertirmi”. Allora citò proprio il Clermont-Ferrand. “Quello è un circuito fantastico, e io ero in una di quelle giornate, semplicemente su un altro livello rispetto agli altri. Ero in testa, ho forato, sono rientrato ai box e quando sono uscito ero qualcosa come novanta secondi dietro i primi. Credo che recuperai un minuto su Jackie e arrivai vicinissimo a passare Emerson”. Era il 1972. Sul perché amasse i circuiti pericolosi, disse: “Perché avevano delle curve meravigliose. Spa, Clermont-Ferrand, il vecchio Nürburgring prima che lo cambiassero, Silverstone, Brands Hatch, Monaco… erano i circuiti più pericolosi perché avevano le curve più belle, ed era per questo che io li amavo, perché amavo quelle curve”. Poi gli chiesi se è vero che più veloce si va e meno si rischia. E lui: “È vero nel senso che sei più concentrato, perché sei più vicino al limite, quindi hai meno possibilità di sbagliare. Comunque il pilota non è consapevole della velocità fino a quando qualcosa non va storto. Allora si accorge che stava andando molto, molto veloce!”. E scoppiò a ridere di nuovo, con un sorriso autentico, bello, quasi infantile.
Luca Delli Carri per Scuderia Club Italia