Il più americano dei piloti dopo Paul Newman, che nella sua vita ha fatto ANCHE l’attore, si chiamava Dan Gurney e oltre ad avere un volto tipicamente United States, a essere bello in quel modo così tipicamente americano che solo gli americani hanno, a essere un corridore di prima classe, è stato il più innovatore fra tutti i piloti.
Se avesse lavorato nel marketing o in pubblicità, il vecchio Dan avrebbe fatto dollari a palate. Invece guidava macchine da corsa, attività che all’epoca, anni Sessanta, non rendeva quanto oggi. Ha corso praticamente ovunque e in ogni categoria, cosa che lo eleva rispetto ai mutanti di oggi, che se dalla Formula 1 passano a correre a Le Mans si sentono eroi di guerra. Gurney ha corso in Formula 1, 24 Ore di Le Mans, CanAm, Champ Car, Nascar, 500 Miglia di Indianapolis. Soddisfazioni se ne è tolte e non poche. In Formula 1, già che c’è, debutta con la Ferrari. Vince quattro Gran Premi di F1: due volte quello di Francia (1962 e 64), una in Messico (64) e una in Belgio (67). A Le Mans corre la prima volta nel 1958 e nel 67 vince in coppia con A.J. Foyt su una Ford GT40 MkIV. CanAm, Champ Car e Nascar furono suoi terreni di gioco: vinse gare in tutti i campionati ma mai il titolo. È uno dei tre piloti al mondo ad avere vinto corse in F1, Nascar e Indy Car.
E ora veniamo alla parte più interessante del racconto e cioè la fantasia che Gurney sapeva esprimere non solo al volante ma anche una volta sceso dalla macchina da corsa.
Nel 67, sul podio della 24 Ore di Le Mans, gli venne in mente di agitare e stappare la bottiglia di Moët innaffiando i dintorni: Carroll Shelby, A.J. Foyt, Henry Ford II. Da allora, questo gesto è sinonimo di corse automobilistiche e più precisamente Formula 1.
Una settimana dopo, Dan vince il Gran Premio del Belgio. Guida un’auto che si chiama Eagle. Nome molto americano, infatti l’ha partorito lui. Dan diventa così l’ultimo pilota a vincere in F1 con un’auto disegnata da se stesso. La Eagle non è stata la più vincente monoposto di Formula 1, però nel suo blu era molto elegante e con il V12 Weslake filava come un treno.
Un altro colpo di genio è stato introdurre in Formula 1 l’uso del casco integrale. È avvenuto nel 1968, al Gran Premio di Germania. Al traguardo, dopo 14, infernali giri, è stato Stewart a passare per primo; nono ma non doppiato, otto minuti e una manciata di secondi dopo è transitato il nostro America’s Renaissance road racer, che indossava un casco integrale, nero. Inutile dire che anche in questo caso ha fatto storia.
Il suo capolavoro in termini di comunicazione è stato la creazione della All American Racers. Solo il nome vale una vita. Nel 1965 Dan e Carroll Shelby danno vita a questa race car company con sede a Santa Ana, California. La AAR farà correre 66 piloti ottenendo 78 vittorie, la Indy 500, 83 pole position e otto campionati. È dalla AAR, che per l’occasione diventa Anglo American Racers, che verrà partorita l’idea della Eagle F1.
Non pago, Dan inventerà un flap, il Gurney’s Flap (o semplicemente Gurney), che per anni e anni si è visto su tutti gli spoiler posteriori delle auto da corsa: un profilo di alluminio a 90 gradi posto alla fine dell’ala, che ne aumentava la deportanza. Lo inventò nel 1971, quando si era già ritirato come pilota.
Nel 78, infine, dà vita alla CART, acronimo di Championship Auto Racing Teams, dando più potere ai team, come aveva fatto Bernie Ecclestone in Formula 1. Per vent’anni fu il più famoso campionato americano di auto da corsa.
Un’ultima annotazione: Gurney era alto un metro e 93. Oggi non troverebbe auto da corsa con un abitacolo in grado di ospitarlo, ma conoscendolo, lui ne inventerebbe una e proverebbe a vincere, come ha sempre fatto in tutta la sua lunga vita.
Luca Delli Carri per Scuderia Club Italia