All’inizio degli anni Settanta, poco prima di darsi al collezionismo delle Ferrari, si è dedicato alla vela. Com’è andata?
“L’automobile l’avevo nel sangue ma per il mare ho sempre avuto una grande passione. La mia adolescenza l’ho passata al Circeo, quando il Circeo era un paradiso. Era proprietà di un barone svizzero e c’erano solo quattro ville: quella della Magnani, una del re del cemento l’ingegner Moratti, una di Sartogo l’architetto e una di mio padre. Facevamo tre mesi di vacanza al Circeo. Mio padre aveva preso un beccaccino per noi figli e io andavo dalla mattina alla sera in barca a vela, libero e felice. Avevamo anche una barca a vela da crociera. Nel 1972-73, avendo già avuto l’esperienza su quella barca a vela di famiglia, mi venne voglia di fare una barca mia. A quel punto mi chiesi: perché, osteggiato da tutti, a partire da mia moglie, devo essere egoista e tenere il GTO, un giocattolo che ora è diventato pure vecchio? Se lo vendo ci guadagno, e quello che guadagno lo investo per fare una vera barca da regata. Il mio discorso era razionale. Ma a questo punto devo parlare della mia passione per la vela”.
Prego.
“Quelli erano i tempi dell’Orca 43 di Raul Gardini, che era un appassionato di vela anche lui. Era una barca stupenda: una barca da regata che poteva essere anche da crociera. Mi innamorai. Scoprii che quella barca era costruita a Bologna. La volevo anch’io. I tempi per averla erano però lunghissimi, per cui mi ricordai del vecchio cantiere di Gallinari, ad Anzio, dove era stata costruita la vecchia barca di famiglia, quella di mio padre. Gallinari era un maestro d’ascia e costruiva una barca all’anno. Chiesi a Gallinari di costruirmi l’Orca 43 in legno. Lui invece aprì un cassetto e tirò fuori il disegno di un prima classe RORC concepito da Carcano, il famoso ingegnere della Moto Guzzi. Era una barca per le regate d’altura, lunga poco meno di 14 metri. Era una barca innovativa, non a dislocamento portante ma planante, con lo scafo ultra leggero, molto largo: poca vela, poco sforzo, poco posto. Il progetto era troppo estremo per me, e chiesi a Gallinari di chiedere a Carcano se poteva effettuare una serie di modifiche, e cioè un bordo libero più alto e una cabina più ampia, perché io volevo vivere la barca. Il risultato è stata la barca di maggior successo della sua epoca. La chiamai Vihuela perché Carcano pose una condizione: che il nome della barca cominciasse per V e finisse per A. Tutte le sue barche erano così, perché aveva una nipote che quando Carcano, grande appassionato di Star, era vicino alla pensione, negli anni Sessanta, lo spronava a disegnare barche a vela. Questa nipote si chiamava Volpina. La prima barca che lui ha fatto l’ha chiamata Volpina, poi ha voluto mantenere questa tradizione: Villanella, Vinca, Vacilla… Io sono diventato matto per arrivare a Vihuela, che ricorda viola, violati, perché il nome della mia barca mi doveva piacere. Il Vihuela era una barca eccezionale, in fasciame lamellare multistrato di legno. Una barca di 14 metri che plana a vela e che raggiungeva velocità impensabili per le barche a vela di quella misura, anche 16 nodi. Le velocità raggiunte dal Vihuela erano raggiunte dalle barche a vela di 30 metri. Con poco vento la barca di Carcano era superiore a tutti”.
Giulio Cesare Carcano è stato uno dei grandi progettisti del motociclistico: ha lavorato alla Moto Guzzi disegnando il motore otto cilindri e il bicilindrico V7, ancora oggi utilizzato. Nel 1965 è andato in pensione e si è dedicato alle barche a vela. Che tipo era?
“Era un carattere difficile, sicuro di sé e delle sue idee. Veniva a bordo, perché era un timoniere di Star e si metteva a timonare il Vihuela. Come saliva a bordo, prima della regata, buttava fuori bordo tutto ciò che era peso inutile: cose insignificanti, ma che servivano per dare un messaggio. È stato un uomo incredibile, ha aperto una strada, ma dato che l’ha fatto per passione e non per denaro, è stato dimenticato”.
Torniamo alla GTO. A un certo punto aveva deciso di venderla.
“Sì. Ero talmente preso dalla vela che avevo deciso di vendere il GTO per finanziare l’impresa della costruzione della nuova barca. A quel punto si è messo in contatto con me un americano per l’acquisto del GTO. Gli ho chiesto 25 mila dollari. Era il 1972. Questo scrive, poi telefona. Dice: Va bene, però la voglio provare. Viene, fa un giro di prova. Ah, bellissimo, dice, io però le offro 22 mila dollari. E perché?, chiedo io. Quale difetto ha riscontrato?, chiedo. Nessuno, ma secondo me è troppo quello che lei chiede. Teniamo presente che il mio era un GTO che tirava fino a 10.500 giri invece che a 7.500, che spingeva e urlava come una bestia. Gli ho detto: Arrivederci. Gli amici, la moglie, tutti a dirmi che ero stato uno scemo a non vendere, che 22 mila dollari erano una bella cifra. Niente, ormai avevo deciso di non venderlo più. Anche perché avevo capito che costruendo la barca nel solito cantiere di Anzio, con Carcano che chiedeva praticamente niente, avrei potuto farcela ugualmente. E così è stato. Ho tenuto il GTO, che ho ancora adesso, e ho costruito il Viuhela, che posseggo ancora oggi”.
(fine quarta parte)
Luca Delli Carri per Scuderia Club Italia
foto ©Marco Pagani