Per anni, oltre alla GTO lei non ha avuto altre Ferrari. Com’è arrivato all’idea di una collezione?“
È vero. Nonostante il GTO io non ero entrato nel mondo Ferrari. Avevo e amavo il GTO, ma non ero un collezionista. A un certo punto cominciai a essere cercato per il GTO. Mi resi conto che c’era interesse per le Ferrari di un certo tipo, che c’era una vera e propria caccia per le vecchie Ferrari. Mi resi conto che c’erano delle organizzazioni internazionali che rastrellavano le Ferrari in giro per il mondo, che c’erano dei loro emissari in Italia che cercavano queste macchine per portarle all’estero. Allora è nata la crociata all’inverso. Io che non ero collezionista, mi sono detto: Se nessuno provvede, qui perdiamo il nostro patrimonio. Ne parlai con il Commendatore, che naturalmente fece il pianto, dicendomi che non aveva i soldi per arrivare alla fine del mese e che tutto quello che aveva gli serviva per mandare avanti la baracca. Questo tipo di discorso era un classico di Ferrari. Ma mi disse anche: Se io non posso mettere da parte le vecchie Ferrari, perché non lo fa lei? Decisi allora di mettermi d’impegno nel salvare una testimonianza che io ritenevo molto importante: la testimonianza di un’epoca precisa, in cui la tecnica e lo stile italiani avevano la supremazia nel mondo. Non volevo che questo patrimonio finisse tutto in America e in Giappone. Mi misi in caccia. E da una Ferrari, il mio GTO, arrivai ad averne venti, trenta in pochi anni, tra cui anche altri GTO, come il GTO 64, per esempio, che è bello ma non è quello vero, ha una linea bastarda, una via di mezzo tra la 250 LM e il 330 LM. Erano già i primi anni Settanta. Erano gli anni della crisi petrolifera e perciò le macchine di grossa cilindrata costavano poco. Proprio a quel punto accadde che la famiglia mi chiese di occuparmi di un’attività proposta da mio cognato: l’acquisizione in compartecipazione di una concessionaria di automobili a Roma, la Bellancauto, allora concessionaria Simca, poi Fiat. Io non ero d’accordo e acconsentii solo se mi avessero dato l’utilizzo esclusivo del garage che stava sotto la concessionaria e di una targa in prova. Accettarono, per cui io andavo in giro per lavoro o in vacanza e se trovavo qualche Ferrari che mi interessava, la compravo, mettevo su la targa in prova e tornavo a casa con la Ferrari, facendo recuperare la mia auto dall’autista. Con i miei risparmi, e con i dividendi della Sangemini, che allora guadagnava molto soldi, cominciai a comprare le Ferrari, a raccoglierle e a tenerle nel garage sotto la Bellancauto, in via della Magliana, creando poi la Bellancauto Classiche e coinvolgendo un ex meccanico Ferrari e i meccanici più bravi della Bellancauto. Volevo solo salvarle, non commercializzarle. Le Ferrari stradali le buttavano via, allora, perché la gente aveva paura che non ci sarebbe più stata la benzina. Io compravo le Daytona seminuove a cinque milioni e mezzo. Ne presi otto, perché erano le Ferrari che si trovavano più facilmente, andando in giro, e mi ero reso conto che sarebbero diventate un’ottima merce di scambio per arrivare ad altre Ferrari più nobili, perché nel tempo si sarebbero rivalutate e avrei potuto venderle guadagnando abbastanza per comprare altre macchine. Perché a me interessavano le Ferrari da corsa, che erano più difficili da trovare. Così, quando ho comprato la P2 ho venduto una Daytona e guadagnato 200 milioni di lire, che erano la metà del prezzo della P2. Se non avessi fatto in questo modo avrei dovuto rinunciare, perché magari tutti i 400 milioni non li avevo”.
Negli anni il mercato ha subito un aumento vertiginoso dei prezzi, per poi crollare.
“Ci sono stati quelli che io chiamo gli anni della follia, dopo la morte di Enzo Ferrari, quando si è scatenata la caccia alle Ferrari e tutti erano diventati collezionisti. Era pieno di speculatori, che le compravano prendendo a prestito i soldi dalle banche, perché comprare e rivendere una Ferrari era diventato un affare. Erano i tempi in cui una F40 era pagata due miliardi, due miliardi e mezzo, e una Daytona 800 milioni. Io dico che il mercato si è guastato. Prendiamo il GTO: è diventato uno status symbol. È sempre stata una macchina per pochi intenditori, invece oggi è diventata una macchina per pochi ricchi. È un simbolo di affermazione sociale. Alla cena di gala di uno degli ultimi raduni GTO era tutto organizzato per dividere i proprietari dei GTO dagli altri invitati. Sono andato al tavolo che mi hanno indicato, mi sono seduto. Hanno cominciato ad arrivare altri invitati, tra cui la moglie di Nick Mason, che mi ha chiesto cosa ci facessi lì. Mi hanno detto di venire qui, ho risposto. Sì, ma questo è un tavolo riservato, ha detto lei. Poi è arrivato Nick e quando mi ha visto mi ha abbracciato, perché lui è uno della vecchia guardia. Ecco, questa è una storia che racconta bene il mondo attuale del collezionismo GTO. È un esempio non grave, ma significativo di come è cambiato il mondo degli appassionati di Ferrari”.
Quando le è venuta l’idea di un museo Ferrari?
“Il museo nasce dalla mia constatazione che se tutte le nostre belle auto italiane vanno all’estero, alle generazioni future cosa faremo vedere? Dei libri? Dei film? Non è la stessa cosa che vedere da vicino un’auto: così significa quasi sentirne il profumo, quasi poterla toccare. Ecco l’importanza di un museo dedicato alle Ferrari. E adesso anche alle Abarth. Nell’1986-87 Enzo Ferrari era ormai molto vecchio. Un giorno ero da lui e mi ha detto: Ma quando lo fai questo museo? Ormai le auto le hai. Quando lui è morto, ho deciso che il museo si sarebbe dovuto chiamare ‘Ferrari vive’ e ho cominciato a parlare con le istituzioni, per cercare il luogo giusto. Ho trovato collaborazione qui a San Marino e sono venuto qui”.
(fine terza parte)
Luca Delli Carri per Scuderia Club Italia
foto © Marco Pagani