Il tempo aiuta a dimenticare: frase bella e non priva di verità. Ma quando il tempo pare scorrere con esasperante lentezza è difficile credere che sia davvero così. E a poco meno di un anno dal fatale schianto fatale ad Attilio Bettega, nessuno della gente dei rally ha dimenticato. Tornare nell’Ile de Beauté non è facile per nessuno. Chi più e chi meno, tutti abbiamo cercato qualcosa in grado di anestetizzare la nostra anima, di medicare una ferita ancora aperta. Io mi sono illuso di trovarlo accampandomi in un albergo diverso, quasi che non dover attraversare ogni sera il giardino dell’alberghetto sul mare potesse davvero costringere la mente a non ricordare ciò che era stato. A tenere in un qualche suo anfratto le parole sibilate, nottetempo, nella cornetta da Sergio Cresto: “Ho bisogno di parlare con qualcuno ed ero certo che ti avrei trovato sveglio”. Voleva sapere, il copilota che una decina di giorni prima, in Costa Smeralda, aveva diviso l’abitacolo di un’altra “Zero” con il trentino. Voleva capire. Ma più di tutto voleva parlare. Le parole possono essere pietre. Quelle che mi aveva detto Maurizio Perissinot mentre mi preparavo alla trasferta corsa erano state piume.
“Il mio rapporto con la Corsica è difficile da spiegare”, aveva detto l’unico testimone della tragedia che il 2 maggio del 1985 s’era consumata poco sotto Zerubia. Aveva aggiunto: “Dovrei odiarla e in un certo verso la odio perché è un’isola che mi ha dato enormi dispiaceri, nella quale ho avuto brutti incidenti, quella che lo scorso anno mi ha lasciato il peggior ricordo, Ma non riesco a volerle veramente male, non riesco a non vedere che è splendida e non dimentico che ad abitarla è gente splendida, persone che hanno mostrato in modo molto concreto di voler davvero bene ad Attilio e a me. Diciamo che rispetto la Corsica e i corsi abbastanza da non incitare nessuno a odiarla per un incidente che, francamente, avrebbe potuto succedere ovunque”.
Sofferta, la confessione di Icio aveva lasciato il segno. Non la amavo, sapevo che immergermi nella sua bellezza selvaggia mi avrebbe ancora provocato fitte lancinanti. Ma mi sentivo pronto ad affrontare un altro fine settimana rallistico fra mare e monti. Non a cuor leggero: il mio entusiasmo per la sfida fra Lancia e Peugeot era svanito di colpo in un giorno di marzo in terra lusitana. Dopo che Joaquim Santos, sorpreso da una reazione della sua Ford RS 200, era piombato nel pubblico uccidendo tre persone. Dopo aver guardato negli occhi i campioni più blasonati che spiegavano come e perché quel Rally del Portogallo per loro finiva lì. L’incidente e la presa di posizione dei “top driver” aveva irrimediabilmente e definitivamente decretato che s’era rotto il fragile equilibrio fra auto e strade. Anche se molti – troppi – avevano scelto di girarsi dall’altra parte. La paura per quello che avrebbe potuto succedere, eravamo in diversi ad averla. Ma non perché la sfida era in programma in Corsica. E comunque si provava a esorcizzarla concentrandoci sul presente: sulla voglia di vincere dei lancisti, per portare fieno in cascina ma anche per onorare la memoria del compagno caduto sul campo e sull’influenza che aveva disturbato Henri Toivonen sul finire delle ricognizioni. Lui ci rideva su, dicendo di non capire perché Ben Bartoletti gli avesse raccomandato di mangiare in bianco e poi avesse ordinato per lui un pitto di pasta al pomodoro: “Questo è rosso, non bianco”, fingeva di protestare. Facendo la faccia seria, come il rappresentante cantato dal professor Vecchioni. Chissà se aveva notato che gli organizzatori del Tour de Corse gli avevano assegnato il numero 4, lo stesso che avevano dato a Bettega l’anno prima. Poi la gara. Lo sprint iniziale di Bruno Saby e Timo Salonen con le 205 T16, la pronta reazione del finlandese con la Delta S4. A sera un primo bilancio da sogno per la formazione italiana: Toivonen davanti a tutti, Miki Biasion terzo e Markku Alen quinto. Saby, unico superstite dell’armata francese, secondo ma a centodue secondi dalla vetta. Con, a confortare tutti, la considerazione che tutto era andato piuttosto bene. Con la speranza che fosse stata siglata una speciale di pace fra piloti e i “mostri”, quegli assurdi intrecci di tubi ricoperti di plastiche più o meno nobili frutto di un regolamento scritto male e interpretato peggio. Il 1° maggio era scivolato via, non era il caso di farsi del male pensando al giorno dopo. Meglio farsi cullare dalla convinzione che tutto sarebbe andato bene.
Altri numeri da scrivere sulle tabelle, altri appunti da affidare ai taccuini. Anche il tempo di ridere con Cresto, a un’assistenza Lancia. Quando Henri, sceso dal camper della squadra per tornare al lavoro, s’era quasi infilato nell’ufficio di Biasion. Ingannato dal fatto che gli angeli in tuta blu avevano spostato la sua auto. Un paio di battute, una pacca sulle spalle. Senza pensare al giorno 2 e al numero 4, senza pensare a nulla.
Il resto è storia. Lo strano balletto sul col d’Ominanda, il breve volo, l’orribile rogo. La certezza che di lì a qualche ora nessuno mi avrebbe chiamato per sfogarsi e farmi sfogare, la rabbia di aver perso un altro amico vero e uno che probabilmente lo sarebbe diventato prima della fine della stagione.
Guido Rancati per Scuderia Club Italia
Sanremo (IM), 1 maggio 2020
L’autore, Guido Rancati. C’erano quelli che sognavano di fare il pompiere, ma erano pochi: fra quelli nati a Sanremo quando ancora le ferite della guerra erano aperte, la stragrande maggioranza si divideva fra chi sognava di diventare cantante per esibirsi sul palcoscenico del Festival e chi invece voleva diventare pilota per correre sul circuito di Ospedaletti. Troppo stonato per cantare, Guido Rancati ha capito in fretta di non avere nessuna delle doti necessarie per correre, e prima ancora di avere l’età per poter guidare un’auto ha iniziato ad abbinare la sua passione per gli sport del motore con quella per la carta stampata. Con alle spalle la poca esperienza maturata scrivendo su alcuni fogli locali, riuscì a convincere Michele Favia del Core ad affidargli il compito di raccontare ai lettori di Motor il Rallye Monte-Carlo del 1966. Da allora, è andato avanti per oltre quarant’anni. Testimone attento di un mondo in continua evoluzione, ha collaborato con molte testate prestigiose, da Autosprint a Rombo, da Tuttorally a Controsterzo, da Sport Auto Moto a RS e alla Gazzetta dello Sport, da Japan Car a Radio Monte Carlo seguendo da inviato il Mondiale Rally e quello di Formula 1.
Dello stesso autore i libri “Uomini e rally” e “Attilio Bettega. L’uomo, il campione”, Inpagina Editore.
La Lancia Rally 037 è stata ideata e costruita dal reparto corse Fiat con un unico scopo: vincere. Agli inizi del 1980 la Fiat 131 Abarth terminava in maniera gloriosa la propria carriera vincendo il terzo titolo iridato, mentre sulla scena mondiale nuove case si preparavano al debutto con nuove auto da rally progettate con cura nella ricerca di prestazioni sempre più esasperate. In quel periodo la FIA rivisitava i regolamenti tecnici dando possibilità alle case costruttrici di macchine da corsa di partecipare alle competizioni omologando solamente 200 esemplari in versione stradale. Nasceva quindi il Gruppo B, massima categoria delle corse su strada, che dava sì la possibilità di produrre pochi esemplari da porre sul mercato, ma imponeva una ristretta elaborazione dei mezzi da competizione rispetto a quelli di serie. In poche parole la vettura che si poteva ammirare lungo le prove speciali non differiva, se non in piccoli particolari, da quella acquistata nel concessionario.
Per questo motivo la Lancia Rally 037 in versione da gara è identica a quella stradale.
Da un punto di vista estetico, non vi sono differenze sostanziali. La carrozzeria, magistralmente disegnata da Pininfarina, si differenzia soltanto per la composizione e per alcuni piccoli particolari. La vetroresina, materiale robusto ma considerato troppo pesante, viene sostituito con del kevlar, portiere comprese, in modo tale da rendere la vettura decisamente più leggera. Il lunotto posteriore viene realizzato in plexiglass trasparente, così come i finestrini dotati di una piccola finestrella scorrevole per l’aerazione dell’abitacolo. Anche gli specchietti retrovisori vengono sostituiti con due più piccoli e sulla parte frontale vengono eliminati i fari fendinebbia, sostituiti da una fanaliera a quattro proiettori riportata sul cofano anteriore così come le luci posteriori, di forma rettangolare, rimpiazzate da due piccoli indicatori di forma circolare. Così configurata e alleggerita di tutti quegli “inutili” accessori la 037 pesa circa 960 Kg. contro i 1170 Kg. della sorella stradale.
Chiaramente, per essere competitivi in un rally, non è sufficiente una macchina leggera, ma occorre avere tutti quegli accorgimenti all’assetto, al motore e al telaio, modificati appositamente per un utilizzo più esasperato. I cerchioni di serie, ad esempio, vengono sostituiti con quattro in magnesio di diverso disegno e misura. I pneumatici 210/595-15 sull’anteriore e 265/40-16 sul posteriore assicurano quindi un grip maggiore considerato che le strade dei rally spesso sono viscide ed insidiose. L’assetto, punto di forza della 037, viene rivisto sia nella parte anteriore che in quella posteriore. Anteriormente troviamo due ammortizzatori a gas tipo Bilstein non regolabili, montati su snodi metallici e dotati di molle elicoidali a flessibilità variabile mentre posteriormente un analogo schema ma con due ammortizzatori per ruota paralleli tra loro e con lo stelo rovesciato. Una soluzione tecnica, rivelatasi poi vincente nei rally, è quella di avere la possibilità di diversi punti di alloggiamento dei bracci oscillanti. Anche l’impianto frenante viene radicalmente modificato. I dischi autoventilanti di serie vengono sostituiti con quattro analoghi ma di tipo scomponibile, con pinze Brembo a quattro pompanti sull’anteriore e due sul posteriore. Il circuito del freno a mano, inoltre, viene sdoppiato e dotato di doppia pompa separata. Questo per avere la possibilità di far “girare” la macchina nei tornanti stretti. Per ottimizzare al meglio la frenata infine, un particolare sistema di servofreno a due canali viene utilizzato in modo tale da garantire frenate potenti e precise, anche in situazione di precaria aderenza.
L’abitacolo, cellula di sopravvivenza del pilota, è stato profondamente rivisto in ogni particolare. Un robusto roll-bar a più punti di ancoraggio prima di tutto è stato installato internamente. Nella vettura tutto è essenziale e ogni cosa è sistemata in posizione funzionale. Il volante, ad esempio, è a calice (quello di serie è invece più piatto) e in posizione avanzata rispetto alla seduta del conducente. Questo accorgimento evita a quest’ultimo stressanti affaticamenti alle spalle e al busto durante la gara dove i movimenti bruschi e le manovre veloci si ripetono in rapida successione. Anche la pedaliera è di forma ergonomica con i pedali realizzati in acciaio e piuttosto ravvicinati tra loro in maniera tale da consentire al pilota di “giocare” con il gas la frizione e il freno. La strumentazione è molto spartana ma leggibile e permette di tenere tutti gli organi meccanici sotto controllo. Troviamo quindi il contagiri, il manometro della pressione e della sovralimentazione del motore, nonché l’indicatore di tensione della batteria e il livello di carburante nei serbatoi. Numerosi fusibili e spie, situate sulla parte centrale, sono in grado inoltre di avvertire l’equipaggio qualora ci fossero avarie o guasti. Sul lato destro invece, ovvero dalla parte del navigatore, troviamo i suoi strumenti di lavoro, vale a dire il computer di bordo e la radio oltre alla centralina elettronica e all’estintore in alluminio a prevenzione di eventuali incendi. La parte inferiore del cruscotto infine, si raccorda con il tunnel centrale nel quale si trovano la leva del cambio e del freno a mano e i comandi dello start del motore. Per avviare quest’ultimo a freddo occorre invece tirare una funicella posizionata nella parete posteriore dietro ai sedili, che agisce direttamente sull’arricchitore della pompa di iniezione.
Il motore dotato di compressore volumetrico è l’anima e il cuore della Lancia 037. Occorre precisare che, durante l’attività agonistica, alcune modifiche sostanziali sono state fatte per aumentare le prestazioni. La vettura Evo 1 agli inizi della stagione 1984 è stata sostituita dalla Evo 2 più leggera, più potente e più performante. La prima elaborazione del motore prevedeva l’utilizzo di un sistema ad iniezione meccanica abbinata ad un diverso meccanismo di trascinamento del Volumex. La pressione di sovralimentazione, ora ai massimi regimi di coppia e di potenza, sale fino a 0.9 bar. Un nuovo filtro dell’aria più voluminoso viene sostituito con quello di serie, in modo tale da consentire al motore di respirare aria fresca proveniente da una presa d’aria posizionata sul lato sinistro del lunotto posteriore. Altre due prese d’aria, poste lateralmente, garantiscono inoltre una adeguata ventilazione e raffreddamento del motore convogliando l’aria direttamente sui collettori di scarico e sul compressore volumetrico. Il comando dell’acceleratore viene eseguito ora da una valvola a ghigliottina montata a valle del Volumex. Questo principio già di utilizzo comune nei motori da corsa presenta però un difetto pericoloso. L’elevata temperatura raggiunta dalla parete scorrevole della valvola a volte ne blocca lo scorrimento con conseguenze che possono rivelarsi disastrose. La preparazione del motore prevedeva inoltre l’adozione di una valvola di sicurezza sul collettore di aspirazione, a protezione di eccessiva sovrappressione dell’impianto. Questa, denominata “pop-off” è in grado di far evacuare l’aria compressa in eccesso che potrebbe provocare seri danni al compressore. Il flusso fuoriuscente dalla valvola viene quindi convogliato in un carter di lamiera e successivamente inviata su un piccolo radiatore per il raffreddamento dell’olio del cambio. Un soluzione intelligente questa, che consente di trarre vantaggio (il raffreddamento dell’olio) utilizzando un prodotto di scarto (aria in eccesso). L’impianto di scarico non viene invece modificato, ma comunque adeguato al tipo di prestazioni. Esso mantiene lo schema originale ovvero quattro condotti che diventano due fino all’interno del silenziatore, per poi sdoppiarsi nuovamente in due tubi paralleli con all’estremità due terminali bombati aventi funzione di spegni fiamma. Questo tipo particolare di silenziatore conferisce alla vettura un suono metallico, piacevole all’orecchio, sordo con il motore ai minimi regimi ma impressionante non appena si sale di giri. La potenza dichiarata con questo primo livello di preparazione è di 265 CV e, per alcuni esemplari in assetto da asfalto, anche 280 CV.
All’inizio della stagione 1983, dopo un anno di rodaggio, nuove sostanziali modifiche sono state fatte al gruppo propulsore e precisamente allo schema di aspirazione e di alimentazione. La cilindrata di 1995 cc rimane invariata ma la valvola di regolazione comandata dall’acceleratore e il collettore di aspirazione vengono riesaminati. Inoltre ulteriori perfezionamenti vengono apportati alla collocazione degli iniettori di carburante e al compressore volumetrico con incremento per quest’ultimo della portata d’aria e conseguente aumento delle prestazioni. Ora la Lancia 037 arriva ad avere 300-310 CV a 8000 giri/min con una coppia massima di 30.5 Kg/m a 5000 giri/min.
Nel 1985, ultimo anno agonistico nella veste ufficiale, ulteriori soluzioni tecniche dettate dall’esigenza di contrastare le vetture turbocompresse a trazione integrale, ormai padrone del panorama rallistico vengono apportate al gruppo motore-compressore. La cilindrata passa da 1995 a 2111 cc con un alesaggio dei pistoni di 85 mm abbinato ad una corsa di 93 mm ed un rapporto di compressione di 9:1. Il compressore volumetrico viene portato alla massima pressione utilizzabile (1 bar) ma questo portava sovente a fenomeni di detonazione all’interno delle camere di combustione a causa dell’elevata temperatura generata in condizioni di carichi elevati ai bassi regimi. Per ovviare a questo problema, non potendo modificare la struttura di base del motore e non potendo aggiungere per esigenze di spazio un circuito di raffreddamento i tecnici Abarth optarono per una soluzione davvero ingegnosa: un sistema di iniezione ad acqua comandato da un sensore di temperatura dell’aria compressa e alimentato da una piccola pompa elettrica. Questa poteva essere azionata dal pilota qualora condizioni di elevata temperatura potevano mettere a rischio il motore. L’ultima evoluzione della 037 raggiunse livelli di potenza molto elevati: alcuni esemplari toccarono i 350 CV con una coppia massima di 33 Kg/m. La Lancia 037, così configurata è in grado di spingersi fino ad oltre i 175 Km/h con una accelerazione bruciante che la porta a 100 Km/h in poco meno di 6 secondi. Questo grazie anche al cambio a cinque rapporti dotato di innesti frontali e ravvicinati con quello finale sostituibile per ottenere velocità massime diverse in funzione del tipo di percorso. La combinazione più utilizzata nelle gare di campionato del mondo prevedeva un rapporto finale pari a 5,25 con una serie di rapporti così distribuiti: prima da 1,875, seconda da 1,555, terza da 1,3, quarta da 1,125 e quinta in presa diretta. Il differenziale autobloccante, infine, per utilizzo agonistico era tarato diversamente rispetto a quello di serie e portato ad un incremento della soglia di lavoro percentuale pari al 40-70%. Al termine della stagione 1985 la 037 termina ufficialmente la carriera agonistica e con essa il suo sviluppo.
Per capire e analizzare questo “mostro” di casa Lancia, bisogna parlare del contesto in cui la Lancia Delta S4 è nata: siamo nei primi anni 80 e nei rally spopolava il celebre Gruppo B, categoria nata nel 1982 dalla fusione del Gruppo 4 (Gran Turismo modificate) e Gruppo 5 (Gran turismo prototipo). Il Gruppo B ebbe poche limitazioni e per ottenere l’omologazione erano necessarie infatti solamente 200 autovetture del modello di base ed era inoltre richiesta la produzione di ulteriori 20 esemplari per ogni “evoluzione” dell’auto: di norma i costruttori derivavano le vetture da gara da queste ultime; tecnologia, peso contenuto e potenza libera non potevano che portare a grandi prestazioni. La Lancia a quel tempo era schierata con la 037, vettura certamente competitiva ma non all’altezza della concorrenza: la trazione posteriore si dimostra nettamente inferiore a quella integrale nelle prove su fondi non asfaltati, inoltre il compressore volumetrico da punto di forza diventa ben presto un limite molto pesante nei confronti della concorrenza turbocompressa (Audi Quattro e Peugeot 205 T16). E così nell’aprile 1983, nemmeno un anno dopo il debutto della Lancia Rally 037, il reparto corse torinese condotto dall’ingegner Claudio Lombardi si concentrò sul progetto Lancia Delta S4 (sovralimentata e quattro ruote motrici) con l’obiettivo di tornare protagonisti nelle competizioni rally internazionali tre le Gruppo B.
Punto di forza del progetto 038 era il propulsore, un quattro cilindri in linea con una cilindrata di 1759 cc. Il motore, posto centralmente, aveva un basamento in lega di magnesio con testata in lega leggera di alluminio, inoltre le canne dei cilindri erano rivestite superficialmente con un raffinato e tecnologico trattamento a base di materiale ceramico, chiamato Cermetal. Le valvole erano 4 per cilindro in Nimonic, una lega Nichel-base normalmente impiegata in applicazioni ad alta temperatura e alto stress meccanico. Vi era un sistema di doppia sovralimentazione: un turbocompressore KKK con in più un compressore volumetrico Volumex, brevettato dalla Abarth (Tipo R18). Il vantaggio del Volumex era di “spingere” già a 1.500 giri/min, mentre la potenza “pura” veniva invece dal turbocompressore a gas di scarico; l’unione dei due sistemi permise elasticità e potenza. I due sistemi di sovralimentazione vennero accoppiati, escludendo il Volumex agli alti regimi di rotazione dove funzionava invece solo il turbocompressore. La Delta S4 in versione stradale aveva 250 CV, la versione da gara al debutto nel 1985 ne aveva 480, mentre l’ultima evoluzione schierata nel campionato mondiale 1986 poteva sviluppare per brevi tratti anche 650 CV (476 kW) con una pressione di sovralimentazione di 2,5 bar tramite un overboost regolabile dall’abitacolo.
Totalmente nuovo e senza componenti derivati dalla serie il telaio della cui progettazione si occuparono l’ingegner Messori prima e l’ingegner Limone poi. Il telaio aveva una struttura reticolare di tubi saldati al Ni-Cr, per poter essere facilmente riparabile e permettere all’assistenza di raggiungere con facilità tutti gli organi meccanici, mantenendo una sufficiente leggerezza. Le sospensioni erano a parallelogramma deformabile, progettate per sopportare una accelerazione otto volte superiore a quella di gravità. Le anteriori avevano molla e ammortizzatore coassiale, mentre le posteriori (doppie) avevano l’ammortizzatore esterno alla molla, per sopportare il maggior peso (57% del carico, più trasferimento di peso in accelerazione). L’escursione era di 250 mm.
La trasmissione si avvaleva di un cambio ad innesti frontali, con albero primario cavo; il moto arrivava alla parte posteriore dell’albero attraverso una sottile barra concentrica, che si torce per rapidi aumenti di coppia sollecitando meno il cambio. Si avvaleva inoltre di un ripartitore centrale di coppia costituito da un rotismo epicicloidale sul terzo asse, munito di giunto Ferguson autobloccante. Infatti il semplice differenziale impone parità di coppia; se uno dei due assi si trova in zona a bassa aderenza si verifica uno slittamento, e il differenziale riduce moltissimo la coppia trasmessa anche all’altro asse, limitando la trazione. Per impedire ciò occorre inibire delle forti differenze nella velocità di rotazione dei due assi. Il giunto Ferguson è costituito da due armature, una interna ed una esterna, con due serie di dischi forati ed affacciati tra loro; l’intero giunto è poi sigillato, e riempito parzialmente di un liquido siliconico viscoso. Se c’è una velocità di rotazione relativa tra le due armature, il liquido è costretto a laminare fra disco e disco, e attraverso i fori nei dischi, esercitando una coppia frenante e riscaldandosi. Oltre una certa temperatura la coppia frenante si impenna, ottenendo la saldatura di presa diretta del giunto: grazie a questo effetto, in caso di rottura di un semiasse, in breve tempo il Ferguson si blocca e il veicolo può proseguire.
I primi test tecnici della Delta S4 furono seguiti da Giorgio Pianta, allora capo collaudatore dell’Abarth. A partire dall’estate 1985, Cesare Fiorio, responsabile Squadra Corse Lancia, affidò al pilota italiano Miki Biasion lo sviluppo della vettura.
La distribuzione della potenza sulle ruote nell’ambito della trazione integrale era stabilita su due standard fissi: a seconda degli impieghi si poteva scegliere l’opzione del 20% all’avantreno e 80% al retrotreno, oppure quella del 35% e 65%. Henri Toivonen , il pilota ufficiale della scuderia Lancia-Martini Racing, in un’intervista aveva dichiarato: “Non avevo il coraggio di tener giù per farla scivolare. Poi ho capito che dovevo guidarla come se fosse sui binari”.
Il debutto mondiale della Delta S4 avvenne nel rally RAC del 1985, e fu un successo: primi due posti con le coppie Toivonen-Wilson e Alen-Kivimaki. La Delta S4 si dimostrò ben presto un’auto vincente. Ma il dramma era alle porte: nel maggio 1986 al Tour de Corse, Toivonen ed il suo copilota Cresto, fino a quel momento in testa al rally, uscirono di strada e perirono nell’incidente.
Nonostante la successiva morte di due spettatori e l’accadimento di altri numerosi incidenti, ma con risvolti meno drammatici. Il mondiale andò comunque avanti ed era vinto dalla coppia Alen-Kivimaki su Lancia Delta S4, grazie all’epilogo del Rally di Sanremo durante il quale accadde un fatto determinante per la corsa al titolo 1986: per aver maggior effetto suolo la Peugeot montò delle minigonne sulle fiancate delle T16 e le tre vetture furono squalificate. I francesi fecero ricorso in appello, ma intanto il mondiale costruttori andò alle Peugeot e il mondiale piloti a Markku Alen, quando undici giorni dopo, la Federazione accettò il ricorso della Peugeot e cancellò il risultato del Sanremo, assegnando così anche il titolo piloti alla Casa del Leone.
La Lancia Delta S4 dopo soli tredici mesi concluse il suo breve ma intenso ciclo, senza vincere alcun titolo mondiale, dimostrandosi comunque una delle più competitive vetture di Gruppo B. L’esperienza maturata con la S4 permise alla Lancia di presentare dopo pochi mesi la nuova Delta 4WD Gruppo A, autovettura che avrebbe poi vinto per 6 volte il mondiale costruttori.